Laura Waddington

/Writings

Estratto da The Iraqi Suitcase

Di Laura Waddington

Tradotto da Andrea Sirotti

Prime pagine in Giordania:

*

Il mio primo giorno in giro per Amman. Non conosco nessuno. Attacco discorso con un uomo, tutto vestito di bianco, che fuma una sigaretta sul balcone di una piccola galleria d’arte, perso nei suoi pensieri, lo sguardo triste e intelligente. Mi dice che è appena arrivato da Bagdad. Quando dico che faccio video e lui mi chiede di descrivere il mio ultimo, sobbalza per l’eccitazione: «Ma il suo film l’ho visto per caso una sera, le sue immagini me le sono sognate! Devo presentarla ad alcuni iracheni. Ci prenderemo cura di lei qui!» La magia del fare video, Border ne ha fatta di strada! Ricordo quando lo facevo, di fronte a tutti gli ostacoli messi sulla mia strada da coloro che non volevano che ci fosse, ho promesso a me stessa che sarebbe stato un messaggio in una bottiglia. Il tizio si chiamava Bassam.

*

Una sera d’agosto, Bassam mi invita a guardare alcuni dei suoi lavori, il suo ritratto di Bagdad tenero e molto commovente. Mi rendo conto di come le immagini dell’Iraq nei notiziari occidentali abbiano fatto da muro, impedendo alla mia mente di avventurarsi oltre, il paese uno sfondo per ispezioni di armi e bombe, e infinite opportunità di foto per Saddam Hussein. Per la prima volta, mi rendo conto dell’intima tessitura di una città distrutta, tracce di un luogo dove uomini e donne hanno sognato, hanno avuto conversazioni piene di fumo, hanno aspettato che le cose cambiassero, hanno vissuto il più intensamente possibile entro lo spazio di manovra sempre più stretto che gli era assegnato.

Più tardi andiamo con i suoi amici a mangiare in un piccolo locale di kebab. Sono colpita dalla vastità delle loro conoscenze; navigano avanti e indietro tra storia, filosofia, letteratura araba e occidentale, in un modo che in Occidente ho sperimentato solo con persone del doppio della mia età. Un’urgenza e un’eccitazione intellettuale. Parlo con Samir, che viene dal sud dell’Iraq, vicino a Babilonia. Parla del suo precedente lavoro come giornalista a Bagdad, dell’impossibilità di tornare a casa

«La cultura in Iraq oggi? Lasciamo perdere», dice Bassam. «Tutto quello che vedete nei media sono stronzate perché prima c’era un Saddam solo, e ora ce ne sono centinaia con una diversa censura e diverse macchine da guerra».

*

La gentilezza degli uomini nella piccola tavola calda dove mangio del foul a colazione. Ogni mattina sparano Fairuz da un lettore CD tutto scassato, come decine di ristoranti e negozi e tassisti in tutta la città. Mi sveglio al suono di alcune delle mie canzoni preferite: Zaali Tawal, Wahdon, Kifak inta… Ha la voce di un angelo.

*

Passo il pomeriggio e la sera con Bassam, cena ad Al Quds e poi un drink in un piccolo bar deserto sulla Rainbow Street. Bassam parla di Federico Garcia Lorca e del suo saggio sulla duende, dei film di Yousry Nasrallah, della poesia di W.B. Yeats. (Mi fa venire in mente mio padre, che cita spesso Yeats ammiccando ironico: «Teste calve dimentiche dei loro peccati!»1) Ridiamo un sacco.

«In tre decenni Saddam ha distrutto il paese. Ho visto la città trasformarsi in un villaggio giorno dopo giorno. Te ne accorgi dalle donne. Se si raccogliessero foto di donne per le strade dell’Iraq dagli anni Settanta a oggi, si comincerebbe con foto che potrebbero venire da Parigi o da Roma e, anno dopo anno, è come ritirarsi nei secoli bui. È orribile.

Saddam è venuto da Tikrit con i suoi uomini e le loro abitudini campagnole. Invece di esportare la civiltà nelle campagne, hanno fatto l’inverso. Hanno controllato e proibito tutto ciò che non gli piaceva della vita in città, come la libertà di parola e la libertà delle donne. Giorno dopo giorno, hanno cambiato le tre città principali, Mosul, Bagdad e Basra trasformandole in enormi villaggi. Non è successo in uno o due anni, ci sono voluti più di trentacinque anni. È uno dei problemi principali ma nessuno ne parla. Io l’ho visto, l’ho vissuto».

Incamminandomi verso casa, nelle prime ore, ricordo la canzone del saggio di Lorca: «Dentro il verziere morirò. Dentro il roseto m’avran da uccidere. Me n’andavo, oh madre, le rose a cogliere, per trovar la morte dentro il verziere».2

*

«…Non un solo momento, vecchio bello Walt Whitman,
ho smesso di vedere la tua barba piena di farfalle,
né le tue spalle di fustagno consunte dalla luna,
né le tue cosce da Apollo virgineo,
né la tua voce come una colonna di cenere
anziano bello come la nebbia…»

Ode a Walt Whitman di Federico Garcia Lorca 3

*

Samir mi racconta che durante le notti di saccheggio seguite all’invasione americana e britannica di Bagdad, un’anziana bibliotecaria si era fatta strada attraverso il caos e gli incendi per cercare di salvare la Biblioteca Nazionale. Un suo amico, il dott. S, la trovò che camminava per i corridoi da sola nel buio, con in mano una vanga da giardino. L’amico si precipitò attraverso la città, per svegliare tutti i conoscenti con l’intento di raccogliere abbastanza soldi da comprare una mitragliatrice per difendere l’edificio, ma erano tutti senza denaro a causa dell’embargo. Così lui e l’anziana bibliotecaria accesero dei piccoli falò in una parte della biblioteca lontana dai libri, per cercare di ingannare i saccheggiatori e i piromani facendo loro credere che fosse già in fiamme. Ma sono arrivati lo stesso. Dicono che le copie di milioni di vecchi manoscritti bruciati non esistevano più, le lettere e i documenti risalenti all’epoca ottomana, e che c’erano tutti i giornali della storia moderna dell’Iraq, e i libri antichi che i soldati di Saddam avevano saccheggiato dalla biblioteca del Kuwait nel 1991. «Ci siamo seduti lì e l’abbiamo guardata bruciare, piangendo», mormora Bassam.

*

Zeyad, un blogger di Bagdad dai modi schietti e diretti che ho incontrato in città. Ci sediamo in un grande caffè fumoso, accanto a uomini intenti a leggere il giornale e a piccoli gruppi di studenti.

Più tardi, garbatamente, mi accompagna a comprare un registratore di suoni. Partirà tra pochi giorni per studiare a New York, grazie a una borsa di studio, la sua presenza qui è solo temporanea:

«Tutti volevamo l’invasione, pensavamo di non avere altra scelta, nient’altro che la guerra. Era un azzardo, o perdiamo tutto o guadagniamo tutto. All’epoca non ne capivamo le implicazioni, non immaginavamo che le cose si sarebbero messe così male. Le nostre percezioni sono cambiate molto in fretta. Siamo rimasti sconvolti dai saccheggi di massa e dalla distruzione che gli iracheni hanno inflitto soprattutto al loro stesso paese. Saccheggiavano i ministeri e bruciavano gli edifici e noi eravamo sbalorditi. Non ci aspettavamo niente del genere. È stata una delusione enorme. Eppure, avevamo ancora qualche speranza. Alcuni iracheni dicevano che entro tre mesi avremmo avuto i McDonalds ed enormi centri commerciali. Avevano tutti grandi aspettative. Penso che sia stato quello uno dei problemi. Quando la situazione non è andata come la gente voleva e si aspettava, molti hanno finito per ricorrere alla violenza.

«Dopo l’invasione, è venuta meno l’energia elettrica per mesi. La maggior parte di Bagdad non ha avuto alcuna elettricità fino alla fine dell’estate, e tu non hai mai vissuto l’estate di Bagdad. La gente non faceva che lamentarsi. Alcuni dicevano che l’America lo facesse apposta a non riparare l’energia elettrica. Ma continuavamo a pensare che fosse meglio di come avevamo vissuto prima della guerra. È stato solo a metà del 2005, che ho iniziato a perdere quasi del tutto la speranza, quando gli attentati suicidi si sono fatti molto frequenti e sono emerse le prove di uccisioni di stampo religioso, in particolare da parte di uomini in uniforme. Ho capito che il paese stava andando in una direzione totalmente differente, si avviava verso la guerra civile».

Lui e gli altri giovani blogger hanno resistito a Bagdad finché hanno potuto, dopo che le loro famiglie erano fuggite, per cercare di documentare quello che stava succedendo:

«I reporter occidentali hanno abbandonato il paese molto tempo fa e i pochi che sono rimasti stanno chiusi nei loro alberghi. Mandano degli inviati iracheni a raccogliere le notizie ma vengono rapiti da certi gruppi. Ora che tutti i blogger se ne stanno andando ci sarà un vuoto. Erano loro l’ultima speranza di far uscire la vera storia. È molto preoccupante.

Non è solo questione di chi resterà a riferire quello che succede, ma se tutta la classe media, i professionisti e le persone istruite si danno alla fuga, chi rimetterà in piedi il paese? E chi contrasterà tutti quei fanatici e quelle masse di analfabeti?»

*

Bassam si china ad annusare i gelsomini di Jabal al Weibdeh. Dice che gli ricordano Bagdad: «Ci tenevo a Bagdad. Non volevo che nessuno la toccasse, nemmeno un albero. Lo dicevo egoisticamente, ma sapevo che dovevamo sbarazzarci di Saddam. Ma è come se tu avessi un cancro alle dita e dovessi tagliarti la mano, ma invece ti tagli la testa, uccidendoti. Questo è ciò che è successo all’Iraq».

Il suo amore per i film di Tarkovskij, e soprattutto per Lo specchio. Sfoglio la copia molto consumata di Scolpire il tempo che si è portato dietro, e ritrovo il brano che ho scoperto a New York quando avevo ventun anni: «è perfettamente chiaro che lo scopo di ogni arte, se essa non è destinata al ‘consumo’, come una merce è destinata alla vendita, è quello di spiegare a se stessi e a chi ci sta intorno perché vive l’uomo, qual è il significato della sua esistenza, di spiegare agli uomini qual è la ragione della loro apparizione su questo pianeta. O, se non di spiegarlo, di porre loro questo problema.» 4

Cosa mi affascinava così tanto dello Specchio in quel periodo? I suoi residui nascosti… era come se Tarkovskij avesse segretamente smantellato l’impalcatura interna della realtà, durante il sonno, e che l’avesse riconfigurata molto sottilmente, lasciando al suo posto qualcosa che assomigliava all’aspetto neutro e non manomesso della vita, ma ora attraversata da invisibili correnti e tensioni – e questo caricava tutto di una specie di peso invisibile, che ancorava quelle immagini ai nostri cuori e ai nostri occhi.

Footnotes

Source

Waddington, Laura. Estratto da The Iraqi Suitcase. Translated by Andrea Sirotti (Upcoming publication.)

Back to top