
Il cinema di Delfina, che andava di fretta
Di Roberto Ellero

Estratto pp. 8–9 del catalogo:
Delfina, sorridente, andava di fretta. Mille idee, mille progetti. Veneziana del mondo, veneziana nel mondo: laurea in Storia dell’arte a Londra, un posizionamento strategico a New York, cuore delle avanguardie, e poi tanti altri luoghi. Tornando ogni volta a Venezia. Capitava di incontrarsi per strada, casualmente, dalle parti delle Zattere. Piccolo riassunto delle puntate precedenti. Più sue che mie. Ho fatto delle cose, dovresti vederle. Certo, sai che adesso abbiamo una nuova sala? E poi, un piccolo festival, ai primi di settembre, durante la Mostra, al Lido. Devi esserci. Scordati il red carpet, non si vince niente, ma non è male… E a Venezia succedeva davvero, forse succede ancora, che un incontro casuale, per strada, diventi un appuntamento, un impegno.
Curiose coincidenze
Il mondo è piccolo, anche a New York, dove Delfina Marcello muove i suoi primi passi da filmaker all’inizio degli anni Novanta, negli ambienti delle produzioni indipendenti. Nel 1992 approda sul set del film di Laura Waddington The Visitor, la storia di una cameriera che fotografa le tracce dell’ospite, una matura signora, nella stanza d’albergo che pulisce tutti i giorni: oggetti personali, la prima pagina di un diario, la copertina di un’edizione francese del Mestiere di vivere di Cesare Pavese.

Delfina è del 1966; Laura, londinese trapiantata, più giovane, del ‘70. Nasce un’amicizia. Ed è curiosa la genesi del film, che la regista fa risalire al ricordo di un episodio veneziano: “Una volta, in un hotel a Venezia, una cameriera aveva controllato le mie cose e registrato la sua voce sul mio walkman. Ho scritto questa storia per lei”. Ancora più insoliti i ricordi dell’incontro con Delfina: “Abbiamo girato The Visitor in un fine settimana in una stanza d’albergo di Manhattan, portando in hotel la macchina fotografica e l’attrezzatura nascoste nelle valigie. L’attrice, Delfina Marcello, che avevo scelto per interpretare la cameriera, per il suo bel viso e un mistero su di lei, si è scoperto che proveniva da Venezia. Alla fine delle riprese mi ha detto che ci eravamo già incontrate. Anni prima, mentre studiava a Londra, aveva lavorato come cameriera in un ristorante e si era sempre ricordata di una scolaretta timida, che le aveva lasciato una moneta e che le aveva sorriso. Non ricordavo il nostro incontro ma era, appunto, il ristorante dove, da adolescente, incontravo mio padre. Questa è stata la mia prima introduzione allo strano modo in cui il cinema entra e esce dalla vita” (https://www.laurawaddington.com/films/5/the visitor). Delfina, il cui primo ruolo è dunque di cameriera ai piani, dopo aver servito ai tavoli di un locale londinese, mentre studiava al Courtauld Institute of Art, lavorerà ancora come assistente della Waddington in The Room (1994), dove interpreterà nuovamente una domestica, e in Zone (1995), per poi avvalersi della sua collaborazione (camera assistant) in occasione di Prayer for Violence (1994–2003). I casi della vita, destinati a strani echi e ritorni nel tempo…




In alto da sinistra a destra: Delfina Marcello in The Visitor (1992) di Laura Waddington. In basso da sinistra a destra: Delfina Marcello e Federico Pacifici in The Room (1994) di Laura Waddington.
Giusto per cominciare
L’esordio registico di Delfina Marcello è dell’anno dopo, 1993, con Bon appetit, sempre a New York, avvio di una carriera che conterà undici titoli in poco meno di vent’anni, in aggiunta alle collaborazioni con altri registi (tra gli altri Momoyo Torimitsu per Miyata Jiro, 1999, e Business in Paris, 2000, e Koh Yamamoto, il ragazzo del finale di Prayer for Violence, per The Masturbating Ego Show, 2010). È tenuto conto che il suo cinema si colloca nel quadro di un’attività artistica e performativa più ampia, fotografica in particolare. Titolo invitante, intrigante e persino un po’ ironico, dove un occhio “buñueliano”, fortunatamente non tagliato, sbircia da una tenda, dapprima in penombra e poi illuminato, l’intera parte destra di un volto femminile attratto e desideroso. In controcampo, Barbie…
(Fine dell’estratto)


Koh Yamamoto in Prayer for Violence (1994–2003) di Delfina Marcello.
Estratto pp. 15–19:
Diari minimi, interni domestici
Interni di un appartamento signorile d’altri tempi. Dettagli di mobili pregiati e poi di lenzuola e guanciali stropicciati. Il primissimo piano di una giovane donna occupata nelle faccende domestiche. Pochi attimi di pausa, pensierosa. Alla parete i ritratti di una bella signora, anch’essa d’altri tempi, giovane ed elegante. La ragazza sta forse terminando il suo turno, si sistema in bagno. Sta leggendo o sfogliando un libro su un grande pittore, Eugène Delacroix à Paris, in francese. Biancheria intima da sistemare. Scrive una lettera, seduta allo scrittoio di casa. In un’altra stanza una sua collega aiuta l’anziana padrona di casa a vestirsi, poi giocano a carte, mentre la radio manda canzonette di moda. Adesso c’è una voce maschile che annuncia qualcosa. La signora s’innervosisce, spariglia le carte. La ritroviamo a letto, imboccata dalla badante. Fatica a mangiare, lo sguardo perso nel vuoto. L’altra ragazza dà acqua alle piante sui balconi. Riconosciamo Venezia. Infatti, subito dopo, l’obiettivo inquadra un imbarcadero dell’azienda trasporti pubblici e l’arrivo di un vaporetto della linea 3 (entrata per qualche tempo in uso per favorire i residenti dalle invasioni turistiche: un fiasco ma il film non poteva saperlo). A bordo di un vaporetto riconosciamo la giovane donna che bagnava le piante. Ha terminato, sta per tornarsene a casa. Scena prolungata. Frattanto la sua collega aiuta l’anziana signora a rivestirsi e ad alzarsi. Una canzone alla radio – La notte di Adamo – ispira un improvvisato balletto a due. Piccolo momento di gioia. L’anziana signora ora guarda la televisione. La badante fa altre pulizie, la lavatrice. La ragazza di prima ora è a Piazzale Roma. È salita su un autobus per Mestre. Alla fermata di via Righi saluta qualcuno, sorride. Delacroix à Paris (2009) è un ritratto a tre: le due collaboratrici domestiche (una delle quali, Liudmila Plămádeală, destinata ad occupare interamente la scena nei lavori successivi) e l’anziana signora, Matilde Terzuoli Marcello, architetto e figura di rilievo nel panorama culturale cittadino, soprattutto madre della regista, ritratta con affetto, c’è da credere, ma in una di quelle fasi dell’esistenza a proposito delle quali il ricordo si fa doloroso. È la vita. Pare che persino Delacroix, che aveva immortalato la rivoluzione in marcia, romantico per eccellenza dell’empireo pittorico francese, non fosse più lui una volta di ritorno a Parigi dopo aver assaporato i piaceri d’Oriente. Ma sono soltanto congetture, originate da un titolo eccentrico e fantasiosamente evocativo.



Liudmila Plămădeală e Matilde Terzuoli Marcello in Delacroix à Paris (2009) di Delfina Marcello.
Scrosci d’acqua. Siamo al coevo On Water (2009). Una ragazza alla toilette (ancora Liudmila Plămádeală) si pulisce i denti, s’asciuga i capelli. Prende le sue cose ed esce di casa, raggiunge in motoscafo Piazzale Roma, passando per la Scomenzera. Beve un caffè. Ci spostiamo in un altro appartamento, lenzuola e cuscini da sistemare, una macchia di sangue. La ragazza è di nuovo in bagno, intenta a strofinare. La macchia di sangue, probabilmente. Sera, un imbarcadero, la ragazza aspetta. Altro interno, ancora un bagno. La ragazza si trucca allo specchio, poi si cura le mani. Un vialetto in esterni. Nuovi rubinetti aperti. Un pene segnato dal tempo in primo piano. Una mano femminile se ne prende cura, lo lava. Un corridoio arredato, appartamento di classe. Voci off in inglese. Ma non sono i padroni di casa, non se ne vedrà mai uno (forse sì, alla fine). Le voci vengono da un film che la ragazza sta guardando alla televisione. Una commedia, un film d’amore. Notte, un vaporetto. La ragazza, elegante, è vestita di nero. Siamo dalle parti di Ca’ Vendramin Calergi, il Casinò, San Marcuola, quasi come in quel primissimo filmato dei Lumière, che a Venezia inventavano sul nascere del cinema la carrellata standosene semplicemente con la macchina da presa in vaporetto. Di nuovo in interni, al collo della ragazza una vistosa collana di perle, musiche d’epoca, Settecento e dintorni, violini, lei in primo piano, di spalle. Poi il totale sulla sala del piano nobile. Lei, sdraiata, en déshabillé, parla al telefono con la madre. In romeno o moldavo. Le solite cose a distanza: come va, il tempo, hai fatto quella cosa, come ti senti, cosa vuoi che ti dica, non ho altro da raccontarti… Immagini fisse di uomini che giacciono a letto, immobili, dormienti, capovolti, ripresi dalla testa in giù. Di varia età, corporatura, vitalità. Chi sono e che rapporti intrattengono con la ragazza? L’abbiamo vista passare di casa in casa senza ben capire le sue occupazioni. Collaboratrice domestica, ma di che tipo? Diciamo femme de compagnie per uomini soli, i dormienti appunto… Fenomenologia di lavori che ci sono e non ci sono, peregrinazioni domestiche del contemporaneo forse nella più antica e scontata delle varianti d’uso. Straniamento, dubbi e quell’acqua compulsiva sempre presente, sin dal titolo. Una necessità, forse un bisogno spasmodico di pulizia.


Liudmila Plămădeală in On Water (2009) di Delfina Marcello.
Infine Joy (2011), che ha per protagonista sempre Liudmila Plămádeală (nei titoli ormai soltanto Plamadeala, all’italiana). Smessi gli abiti eleganti indossati in On Water, ora assomiglia molto di più alla ragazza un po’ triste del Delacroix, che avevamo lasciato sull’autobus per Mestre. Anonimo condominio di terraferma, vediamo e sentiamo delle macchine. Interni modesti, popolari ma dignitosi. La ragazza prepara da mangiare. Televisione accesa, c’è l’oroscopo del giorno, l’immancabile Mago Fox, capace di ricamare sul capricorno meglio di un filosofo sulla metafisica. I nati sotto quel segno sono naturalmente chiamati a dare il meglio di sé. E poi lo scorpione, altro pistolotto ma in calando, perché l’azione si sposta dalla cucina alle altre stanze. Una breve telefonata a casa. Ora la ragazza passa alle altre faccende domestiche. Arriva l’ora di pranzo. Forse è domenica. A tavola, con lei, una coppia, connazionali probabilmente. Guardano la televisione, tutti insieme. La ragazza appare affaticata, la faccia ancora più triste, quasi rassegnata adesso. Stacco. Irrompono le immagini assai più vivide di una qualche festa, il Natale di anni prima, in famiglia. Ricordi di gioia.
Cinema del reale
Girati in tempi ravvicinati, fra il 2009 e il 2011, Delacroix à Paris, On Water e Joy presentano molte affinità, a cominciare dalla presenza della medesima protagonista, le sue origini, il profilo lavorativo, quello straniamento che deriva dall’essere dove non dovrebbe o vorrebbe. Una vera e propria trilogia o forse i tre tempi di un unico film, libero lo spettatore di collegare identità e percorsi esistenziali. Perché Joy potrebbe anche essere la giornata libera della giovane donna che puliva in Delacroix, e fors’anche, volendo, l’altra faccia della ragazza disinibita di On Water. Ma al di là delle convergenze suggerite dalla medesima interprete, potrebbero anche essere soltanto i distinti ritratti di tre donne dell’Est europeo impiegate nei nuovi ruoli domestici dilaganti in un paese di vecchi, sempre meno sufficiente a se stesso. I tempi cinematografici tendono invariabilmente al rarefatto e quasi coincidono con il tempo reale, tranches de vie, aggiornamenti di certo cinéma vérité già in uso negli anni Sessanta.
Sono comunque gli ultimi lavori noti di Delfina Marcello, che ci lascerà, prematuramente, nel 2017, poco più che cinquantenne. In questi casi si tende a considerare “testamentario” ciò che in origine non lo era affatto: mica sappiamo con così largo anticipo quando arriverà la nostra ora. Certo che questo triplice ritratto femminile, minimalista e senza parole, come lo sono spesso i suoi lavori, espressione di una poetica che sarebbe piaciuta allo Zavattini che teorizzava il “pedinamento”, immette a pieno titolo la regista in quella dimensione della narrazione in soggettiva, assai personale, priva di orpelli didascalici e men che meno ideologici, che è per l’appunto la cifra più consona per definire il “cinema del reale”, che irrompe sugli schermi nel nuovo secolo, nozione forse ancora vaga, imperfetta, ma pur sempre utile per comprendere le modalità di un fare cinema che ha definitivamente abbandonato tanto la presunta oggettività del documentario quanto la mera verosimiglianza della finzione, facendosi piuttosto carico della realtà com’è.
Fenomeno riscontrabile anche in certa narrativa letteraria, dove il narratore va volentieri implicandosi nei fatti narrati. Nel caso della nostra autrice l’esplicito resta di natura fenomenica, non comporta implicazioni emotive semplicemente perché la regista non le va cercando e provocando, mentre l’implicito resta volentieri vago, sospeso, incompiuto. Il cinema di Delfina Marcello è sempre stato allergico alle spiegazioni, e ancor più alle affabulazioni “etiche”. Seleziona certo il reale, ne mostra le fattezze senza infingimenti ma lavora piuttosto per suggerimenti, tracce, significativi frammenti. Colpisce, a proposito di temi e figure della trilogia, la singolare circolarità di un ritorno: figure femminili di “servizio”, esattamente come nei primi ruoli interpretati da Delfina per Laura Waddington e da questa ricordati per rievocare il primo incontro. Il cinema che entra e che esce dalla vita, diceva.


Liudmila Plămădeală in Delacroix à Paris (2009) di Delfina Marcello.
Solitudine
Non disponiamo di troppi interventi critici a proposito del cinema di Delfina Marcello, vissuta ai margini dell’ufficialità, come buona parte del cinema sperimentale di ieri e di oggi. Nella documentazione stampa dell’evento espositivo alla Galleria Ikona ci imbattiamo in un profilo di Alfredo Sigolo: “(…) l’originalità di Delfina Marcello, che ha nelle corde la capacità di indagare analiticamente fatti della storia e cronaca, decostruendoli e riassemblandoli per ricreare visioni inedite e sequenze allegoriche di grande suggestione e bellezza, in cui la realtà pare naufragare irrevocabilmente nell’abisso delle coscienze: una formula alchemica che è limpida ricetta estetica” (dal catalogo della mostra On Air, Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone, 2004). Formula alchemica, abisso delle coscienze: sono nozioni che colgono certamente quel carattere misterioso, un po’ criptico, assai concettuale e dunque cifrato che caratterizza i lavori della regista, dove persino ogni singolo fotogramma, o frame che dir si voglia, può celare interrogativi destinati a rimanere tali, specie sul versante di eventuali riferimenti autobiografici noti soltanto all’autrice e forse ai pochi che ne condivisero una qualche intimità. Difficile perciò avventurarsi per tali sentieri che finirebbero presto per interrompersi o portarci fuori strada.
E se ci siamo dilungati, titolo per titolo, nella ricostruzione testuale dei suoi lavori è esattamente perché nessuna sinossi sarà mai in grado di compendiarne l’effettiva complessità nelle due righette di “trama” per le schedature necessariamente veloci dei programmi di sala. La parte per il tutto, spesso, e dunque anche la sineddoche accanto alle molte altre figure del linguaggio esplorate visivamente da Delfina, ma con deragliamenti che magari portano altrove, percorsi accennati e rimasti inesplorati, spunti visivi di altre possibili storie, non necessariamente riconducibili a quella che la regista va prioritariamente raccontando. Un’esperienza visiva complessa e articolata, multiforme, polisemica, dove la ricerca rimane inesausta. Un tratto che accomuna le figure femminili della trilogia, e a ben vedere anche buona parte dei personaggi portati sullo schermo in precedenza, è la condizione di solitudine che li caratterizza, assenza di relazioni e di affetti, di motivazioni sociali e forse anche di ambizioni personali, personaggi solitari e sospesi, che tutt’al più evadono nel sogno, nei ricordi di una memoria felice inesorabilmente lontana nel tempo.Condizione che certo può ben riguardare il sentire dell’autrice, di cui serbiamo ricordo sin dalla prima interpretazione nel film di Laura Waddington The Visitor: quel finale hopperiano che ce la consegna in perfetta solitudine al tavolo di un bar, sguardo attonito, mentre dalle vetrate che cingono il locale d’angolo entrano le luci dell’incessante traffico stradale che si dipana per le vie di Manhattan.

Il primato della visione
Delfina andava di fretta, ma non senza fermarsi a riflettere. E la sua filmografia cadenza tali riflessioni, con una visualità sempre dirompente. La parola, il parlare – quando ci sono – non brillano, hanno un ruolo e uno spazio certo meno pregnanti del visuale, che sa essere stasi e movimento, senso letterale e più spesso figurato, con procedimenti ellittici che impegnano lo spettatore a costruirsi una sua personale dimensione fruitiva e interpretativa (esemplare da questo punto di vista Fur, che resta sospeso nella sua eloquente ma in fondo volutamente ambigua dimensione metaforica). Dal teatrino espressionista ed esuberante di Bon appetit ai diari minimi di Delacroix à Paris, On Water e Joy passano quasi vent’anni, il tempo di una vita nel caso della regista, e ciò che all’inizio era divertita provocazione, ricca di implicazioni e rimandi, esibizione del corpo e del desiderio, diventa alla fine adesione quasi mimetica ad un vissuto minore, essenziale, persino bressoniano nel lavoro di sottrazione: le ragazze della trilogia come “modelli”. Le esperienze pop (Prayer for Violence e soprattutto Enjoy) ostentano una vitalità giocosa che mai rinuncia ad un punto di vista ironico (ed anche critico) nei riguardi del vivere americano (le pratiche di quotidiana violenza, la sessualità industriale dei feticci), condiviso per qualche tempo dall’autrice durante il suo soggiorno newyorkese, mentre il ritorno in Europa sembra aprire a nuovi imprevedibili scenari: la tentazione narrativa de Il bivio, che potrebbe preludere ad un passaggio, mai verificatosi, al lungometraggio di finzione, e la vena per così dire “documentaristica”, avviata con Metalzerodegrees e poi proseguita con Inside. Luce e movimento, quest’ultimo titolo – come s’è detto – già “infiltrato” nella sua seconda parte dai segnali di quel nouveau réalisme che la regista andava parallelamente praticando nella trilogia. Centrale, ed anche fortemente rappresentativo del carattere profondamente autoriale del cinema di Delfina, quel piccolo esperimento di autoritratto che è Love Accessories, che abbiamo rubricato come “interludio” esattamente per il suo porsi come pausa scopertamente personale fra un prima e un dopo nel lavoro dell’autrice. Da una parte il filmmaking, le sirene della video art, comunque il lavoro sperimentale; dall’altra pratiche filmiche più orientate e conseguenti, finalizzate ad un rapporto maggiormente colloquiale con il pubblico, con la critica, con la realtà stessa. Nessun retour à la normale, peraltro, lo stile rimane sempre personalissimo, così come la presenza costante (sin dalle titolazioni) di una certa propensione per l’understatement, lo sberleffo, il riferimento altro e spiazzante, un modo di essere che è quasi di per sé un marchio personale. Diciamo piuttosto la possibile apertura a nuovi orizzonti espressivi, se solo ce ne fosse stato il tempo. Anche per questo resta il profondo rammarico per ciò che Delfina avrebbe ben potuto ulteriormente proporci, magari riuscendo una volta di più a stupirci. Ci lascia un lavoro filmico per forza di cose interrotto, parziale, ancora e sempre in itinere, epperò quanto mai ricco, variegato, dotato di coerente adesione al primato della visione. Ed è di questo suo percorso che le siamo profondamente grati.


Prayer for Violence (1994–2003) di Delfina Marcello.
Essay from the catalogue ‘Love Accessories, Delfina Marcello’, compiled and produced by Ewa Gorniak Morgan, Margherita Fabbri, Lorenzo de Castro, and Vittorio Urbani for the exhibition of the same name, curated by Vittorio Urbani and produced by Nuova Icona in collaboration with the Scuola Internazionale di Grafica Venezia.
The exhibition was held at Oratorio di San Ludovico, Venice, Italy, from 2 to 30 September 2022, in parallel with the exhibition EX VOTO (also dedicated to Delfina Marcello’s work), curated by Francesco Pandian at Galleria Artericambi, Verona, from 17 September to 20 October 2022. Both exhibitions were organised with the agreement of Pietro Marcello.
Reproduced with kind permission of the author, Roberto Ellero. The copyright for this text and all images—except those from Laura Waddington’s films—remains with the respective rights holders.
With gratitude to all involved, in the shared hope that Delfina’s work and legacy will continue to reach new audiences.
Footnotes
Source
Ellero, Roberto. “Il cinema di Delfina, che andava di fretta.” In Love Accessories: Delfina Marcello Catalogue, edited by Ewa Gorniak Morgan and Margherita Fabbri. Venice: Nuova Icona and Scuola Internazionale di Grafica, 2022: pp. 8, 18. Published in conjunction with the exhibition of the same title, produced by Vittori Urbani and Nuova Icona, in collaboration with Lorenzo de Castro and others, at Oratorio di San Ludovico, Venice, September 2–30, 2022.
Back to top